La zona di interesse

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La zona di interesse è un film sonoro. Sì, perché la forza della tragedia si basa soprattutto sui suoni che si sentono di sottofondo. Si intuisce già dall’inizio l’impronta che vuole dare il regista. Un dolore immaginato, non esplicito, che parte con lo schermo oscurato per circa 7 minuti, muto. Poi, a poco a poco, in crescendo, si comincia a sentire un cinguettio, che prepara all’apertura della prima scena, con una famiglia al sole intorno a un lago. La particolarità del film, come molti ormai sanno, è la sceneggiatura alquanto originale, anche se tratta da un libro. Descrive con estremo cinismo la vita quotidiana del generale Rudolf Hoss, comandante del campo di Auschwitz e la sua famiglia, nella loro leggiadra abitazione, adiacente al lager. Un contrasto dissacrante che si snoda tra lo svolgimento vacuo delle loro giornate e l’orrore dello sterminio a portata di schioppo, oltre i confini di un muro spinato. La freddezza mostrata di fronte a quella realtà è gelida. L’indifferenza nei riguardi di ciò che accade aldilà di quella recinzione è disarmante, così come le loro priorità, i discorsi futili, le feste e la routine tranquilla di una famiglia benestante. Le leggerezza con cui s’impossessano dei vestiti e degli oggetti di cui gli ebrei si sono dovuti disfare, come fosse una lotteria, è agghiacciante, ma testimonia esattamente quello che Jonathan Glazer ha voluto sottolineare. Cioè come l’Olocausto appariva ai loro occhi, e come dal loro punto di vista quella tragedia rientrasse nella normalità, seguendo un disegno voluto dal Fuhrer.

I figli del comandante non si pongono mai domande su cosa esiste là dietro, come fosse un luogo abitato da fantasmi, o un parco giochi. Solo la mamma di Hedwig ospite nella casa, si accorge di quanto sia penetrante l’odore di morte che giunge da ogni parte e per questo abbandona la casa.

Non è un film che fa riflettere, non c’è niente da riflettere, perché l’obiettivo del film è palese. Il succo della storia si riassume secondo me nella frase che la protagonista pronuncia alla mamma mentre le fa vedere con soddisfazione il suo giardino pieno di fiori : <Mi sento la regina di Auschwitz>. Tutto dire. Si inquadrano primi piani di azalee, tulipani, rose e girasoli, tra l’eco delle urla in lontananza, l’abbaiare dei cani, le sagome dei treni carichi di deportati che sbuffano in direzione del campo, i colpi di fucile, o il crepitio dei forni e delle ciminiere che fumano carne e ossa. Ma tutto è solo acustico, lo si intuisce, senza entrare mai nel campo.

Ho seguito con attenzione tutta la durata del film, ma a parte la sua evidente drammaticità, non mi ha stravolto. Mi sono invece emozionata nelle scene prima della conclusione, in cui appaiono le addette delle pulizie, oggi, tra i luoghi dove ho lasciato il mio cuore straziato. Rivedere le scarpe, i capelli, gli oggetti ammassati, le divise a righe, i corridoi con le fotografie, i forni, il muro delle fucilazioni e le camere a gas, è un cimelio difficile da digerire. Splendida la colonna sonora che chiude il film con suoni psichedelici, metallici, quasi a ricreare le urla e i lamenti di tanto orrore.

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